PFAS, soluzioni per un problema invisibile

 



Circondate da un problema invisibile, le persone che vivono nelle zone colpite tentano di superare il senso di impotenza in modi diversi: alcune, come Donata Albiero, cercando da un lato di esercitare un controllo continuo su quello che mangia e beve, e dall’altro di stimolare in altre persone l’azione contro i PFAS. 

Albiero, oggi in pensione, ha lavorato per quarant’anni nelle scuole, prima come insegnante e poi come preside, ed è sempre stata attiva nei movimenti ambientalisti. Vive assieme al marito Giovanni Fazio ad Arzignano, a poco più di sei chilometri dallo stabilimento della Miteni. «Quando la Regione ha fissato i criteri delle zone inquinate, con i colori, abbiamo scoperto che Arzignano non rientrava nelle zone a rischio. Il che ci ha insospettito, perché siamo vicino a Trissino». Il non essere in zona rossa o arancione significava anche essere esclusi dagli screening per la presenza di PFAS nel sangue. «Nel 2016 ho fatto delle analisi, privatamente. Scoprire di avere PFAS nel sangue mi ha attivata con più indignazione. Ho pensato: se io ho questi livelli, come stanno i miei concittadini?».


Donata Albiero e Giovanni Fazio nello studio della loro casa. I due attivisti sono moglie e marito. Arzignano (Vicenza), settembre 2024.


Per reagire alla situazione, Albiero racconta di aver cercato «una modalità più rigorosa di vita. Ho cercato il più possibile di curare la mia alimentazione, per esempio scegliendo solo cibo biologico perché mi preserva da quei pesticidi che contengono PFAS». Ha eliminato dalla sua dieta alcuni cibi, come le vongole, particolarmente a rischio di accumulare sostanze inquinanti. E sceglie frutta e verdura prodotte lontane dalle zone più inquinate della regione. «Per bere, compriamo acqua in bottiglia di vetro che viene da una fonte a più di 1500 metri di altitudine, in montagna, in una zona priva di industrie», racconta Donata Albiero.

Albiero e il marito prendono invece l’acqua per cucinare dalle casette dell’acqua che il gestore locale delle acque, Acque del Chiampo, ha installato in paese. Per la coppia, è stata una vittoria personale: con la loro associazione ambientalista, CiLLSA, hanno fatto a lungo pressione per ottenere i punti di ritiro di acqua pulita. Ogni casetta è dotata di filtri a carbone e di un display che mostra i dati sulla presenza di PFAS nell’acqua (che deve essere pari a zero).



Una dieta senza PFAS

«Tutt’ora, a dieci anni dalla contaminazione, non esiste nessuna possibilità di fare una dieta sicuramente esente da PFAS», spiega Giovanni Fazio, che fa parte dell’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente (ISDE). «Se oggi una donna in gravidanza, che sappiamo essere la categoria di persone che corrono maggiori rischi, volesse fare prevenzione alimentare, non potrebbe. Nessun cibo è segnalato come PFAS free: questo è il problema su cui assieme a un gruppo di esperti stiamo preparando un testo di legge di iniziativa popolare».

Nel 2022, la Regione Veneto ha approvato un accordo di collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità per svolgere dei monitoraggi sulla presenza di PFAS negli alimenti prodotti dalle aziende agricole nelle zone colpite dall’inquinamento della Miteni, dopo anni di richieste da parte degli attivisti. Grazie a una richiesta di informazioni inviata da Marzia Albiero, attivista contro i PFAS e direttrice della Rete Gruppi Acquisto Solidale di Vicenza, sappiamo che al momento è in corso il monitoraggio della presenza di PFAS negli alimenti di origine vegetale (cereali, frutta e ortaggi). I risultati di un primo studio sulla presenza di PFAS negli alimenti, basato su dati 2016-2017, avevano trovato che anche solo l’esposizione alimentare media della popolazione generale residente in aree non contaminate supera la dose settimanale tollerabile di PFAS (che nel 2020 è stata definita dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare in 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana).


Nel frattempo, Donata Albiero e l’associazione CiLLSA hanno lavorato a un “manuale di difesa quotidiana contro i PFAS”, un prontuario che raccoglie informazioni sui prodotti e i processi industriali che impiegano queste sostanze, dai tessuti alle vernici agli imballaggi, comprese liste che individuano le aziende che si impegnano a non farne uso.

Casetta dell’acqua che eroga acqua filtrata e monitora la presenza di PFAS. Arzignano (Vicenza), settembre 2024.


Sfiducia e attivismo

Difesa, accorgimenti, mitigazione: le parole di chi vive a contatto con i PFAS si tengono a una certa, scettica, distanza dall’ambito delle soluzioni. È la distanza di chi è logorato da anni di lotta contro una contaminazione che è invisibile, ma causata da persone in carne ed ossa. Il continuo scontro con istituzioni lente, sfuggenti, che non rispondono al bisogno di sapere prima di tutto se si è esposti alla contaminazione, ha reso persone come Elisabetta Donadello – che prima del problema PFAS non aveva esperienze di attivismo – assieme sfiduciate e agguerrite. L’immobilità delle autorità ha spinto molte e molti ad agire.

Oggi le attiviste del gruppo Mamme No PFAS guardano alla bonifica come l’unica vera soluzione. Nel giardino di Elisabetta Donadello c’è un grande salice. «Indovina quanti anni ha?», mi chiede. «Solo tredici anni. È sicuramente pieno di PFAS». I salici, alberi molto usati per la fitodepurazione, sono efficaci nell’assorbire e accumulare le sostanze inquinanti. Donadello dice di aver imparato molto in questi anni a contatto con il problema PFAS, in particolare a come agire collettivamente, di gruppo. «Partecipo agli eventi pubblici, vado a parlare nelle scuole. Si entra a far parte di un movimento. Voglio che quello che ho imparato sia utile a tante altre persone, qui».

PUOI LEGGERE il testo integrale di RADAR MAGAZINE includente altre intervista di cittadini della provincia di Vicenza cliccando il LINK

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