Processo Miteni per l’inquinamento da Pfas. Tra scienza, coscienza e conflitti d’interesse
di
Mario Saugo e Claudia Marcolungo — 6 Gennaio 2025
Il
dibattimento in corso a Vicenza per la devastante contaminazione chimica è un
punto privilegiato per osservare e valutare anche il ruolo spesso problematico
dei consulenti scientifici dentro e fuori le aule di Tribunale. Un caso di
scuola che va dalla minimizzazione degli effetti avversi alla pretesa
separazione tra pericolo e rischio. Mentre un’intera comunità segnata nel corpo
e nelle speranze attende risposte
A
Vicenza si celebra il più importante processo per inquinamento mai svolto in
Italia, che riguarda l’inquinamento da Pfas causato primariamente dagli
sversamenti effettuati nel corso di decenni dall’industria chimica
Rimar/Miteni/Icig.
Vicenza
diventa quindi un osservatorio privilegiato per vedere e valutare anche il
ruolo dei consulenti scientifici dentro e fuori le aule di Tribunale. Il peso
della scienza nelle Corti è da decenni oggetto di attenzione, tanto che alcuni
autori ne hanno parlato in termini critici evidenziando strategie processuali
deprecabili portate avanti da “mercenari della scienza” che alimentano una
“cultura del dubbio” finalizzata a negare nessi causali e associazioni con
danni ambientali e sanitari e spesso veicolo per assoluzioni in casi di
disastro e crimini ambientali.
Nell’occasione
specifica, il professor Paolo Boffetta e il professor Claudio Colosio,
consulenti delle società imputate, hanno predisposto un loro “aggiornamento”
sulla valutazione del rischio di danni alla salute nelle svariate decine di
migliaia di persone colpite dall’inquinamento in parte delle tre province di
Verona, Vicenza e Padova.
La
loro posizione è stata la sistematica minimizzazione degli effetti avversi
derivanti dall’esposizione ai Pfas. Inoltre, il loro intento era quello di
dimostrare che la popolazione del Veneto non abbia da temere attraverso una
valutazione di impatto ed esposizione. Hanno pertanto depositato le conclusioni
di questo “esperimento” in alcune slide tese a illustrare le loro valutazioni,
rese in parole semplici, di modo che la Corte e i giurati potessero agevolmente
comprendere.
Sulla
base degli articoli scientifici che i due periti hanno considerato, del parere
dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa, 2020) e dei loro
calcoli bere due litri di acqua con 1.173 nanogrammi per litro di Pfoa al
giorno “rientra nei limiti protettivi”.
In
realtà nella discussione in aula è subito emerso un inghippo: i consulenti non
avevano considerato il peso corporeo. I valori fissati da Efsa (4.4 ng/kg di
peso corporeo/settimana) sono in realtà 53 volte più bassi per l’adulto di 70
chilogrammi che beve due litri di acqua e 186 volte più bassi per il bambino di
10 chilogrammi che beve un litro d’acqua.
Un
errore grossolano in cui sono incorsi due luminari? Di sicuro, nessuno studente
di Biologia, di Farmacia o di Medicina potrebbe mai fare un errore del genere a
un esame.
Per
valutare l’impatto delle affermazioni dei consulenti sulla salute umana, va
considerato che i Pfas si accumulano nell’organismo. Bere per diversi anni
acqua inquinata con 1.173 nanogrammi per litro di Pfoa porta ad avere in media
un valore di circa 140 nanogrammi per millilitro nel proprio siero. Sono dei
valori molto alti: circa cento volte più alti di quelli che si trovano nel
sangue del resto dei cittadini veneti.
Come
si evince dalle magliette da un decennio mostrate dalle “Mamme No Pfas”, sono i
preoccupanti valori trovati nel sangue dei figli. Le famiglie dei residenti e
dei lavoratori della Dupont nella Mid-Ohio Valley negli Stati Uniti hanno già
in passato vissuto un episodio simile ed un altrettanto grave episodio di
inquinamento industriale e sono stati oggetto di studi molto rigorosi: per
livelli di Pfoa nel siero molto alti (superiori a 110 nanogrammi per
millilitro) il rischio di cancro del testicolo è da due a tre volte più
elevato.
L’impatto
quindi non è assolutamente rassicurante come dipinto dalle difese. Del resto la
storia di questo stabilimento chimico insegna come le preoccupazioni di alcuni
medici del territorio e della stessa popolazione sono rimaste inascoltate a
lungo da parte delle istituzioni locali e degli organi di controllo: già nel
1977 erano stati chiusi gli acquedotti di tre Comuni per l’inquinamento da
dinitro-benzotrifluoruri.
Le
associazioni che hanno portato alla luce le dimensioni devastanti di questa
ulteriore contaminazione chimica da Pfas hanno da più di un decennio alzato la
voce, per chiedere adeguati riscontri, dai campionamenti delle matrici
ambientali a seri programmi di biomonitoraggio; da misure di prevenzione e
precauzione all’inibizione e controllo di attività pericolose. Una pressione
bottom-up, si direbbe, che ha fatto da traino e pungolo all’attivazione delle
competenti autorità.
Nel
2023, mettendo insieme le evidenze degli studi sull’uomo, sull’animale e quelle
di laboratorio, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha
classificato Pfoa come cancerogeno per l’uomo per le sedi del rene e del
testicolo. E non a caso, la stessa Iarc ha acceso un faro sull’eccesso di casi
di tumore del testicolo riscontrato in alcuni Comuni della zona rossa, a
partire da una segnalazione del Sistema epidemiologico regionale, che già nel
2016 aveva registrato un aumento dei casi di tumore del testicolo nel Comune di
Lonigo (16 casi osservati contro 8.7 casi attesi), dati che mal si conciliano
con l’affermazione dei consulenti che l’acqua con 1.173 ng/l di Pfoa è in ogni
caso “nei limiti protettivi”.
È
dunque possibile che i due consulenti con il loro “grossolano errore” volessero
dimostrare proprio il fatto che è impossibile che si sia verificato un danno
alla salute della popolazione? Non solo è possibile, ma alcuni indizi appaiono
significativamente orientati.
Basti
leggere quello che hanno detto nella loro perizia: “La classificazione della
Iarc riguarda il pericolo, non il rischio”. Dunque, secondo i consulenti, non
vi sarebbe nessun aumento di rischio di tumore in chi è stato esposto, anche ad
alte dosi. Si tratta di una mistificazione terminologica che si basa su una
pretesa separazione tra il pericolo (che è solo teorico) e il rischio, cioè la
misurazione dell’aumento dei casi di tumore in gruppi e in popolazioni di
persone esposte a sostanze riconosciute formalmente come cancerogene per
l’uomo.
D’altro
canto il professor Boffetta è noto a livello internazionale non solo per il suo
prestigioso curriculum (1.604 ricerche pubblicate su riviste internazionali) ma
anche per i suoi conflitti d’interesse: collabora da anni con le companies
internazionali e ha sempre concluso che numerose evidenze di cancerogenesi
nell’uomo sono limitate e confuse da errori e da limiti informativi per la
diossina, il berillo, l’arsenico, gli scarichi dei motori diesel e perfino
l’amianto. Idem naturalmente per il Pfoa.
È
stato oggetto di forti e ben documentate critiche su giornali prestigiosi come
Le Monde o la Repubblica, su riviste scientifiche del settore come
Environmental Health o Epidemiologia & Prevenzione. È anche stato costretto
in più occasioni a rettificare o puntualizzare le sue dichiarazioni di
indipendenza scientifica, come da ultimo nel 2023 proprio per la sua posizione
di parte nel processo Miteni.
Al
di là dello specifico episodio, situazioni come questa ci invitano a una più
approfondita valutazione delle questioni relative ai conflitti di interesse e
all’indipendenza del mondo scientifico.
Fare
i consulenti per l’industria è un lavoro legittimo. Ma di fronte a questa
vicenda sorge spontanea qualche domanda, che considera ragioni di opportunità,
di correttezza deontologica e di rigore professionale e impone la necessità di
una rilettura dei conflitti di interesse e degli impatti che possono avere
sulla stessa giustizia. Appare altamente improprio il comportamento di studiosi
che pubblicano articoli affermando di aver ricevuto finanziamenti da
associazioni per la lotta al cancro per poi essere costretti a smentire
pubblicamente o non rivelano incarichi in essere correlati all’oggetto dei loro
articoli, fatti che ne condizionerebbero, almeno per il lettore, l’attenzione e
il senso critico.
Il
ruolo di periti e consulenti, all’interno di un processo, risponde alla
funzione di definire al meglio i termini della questione, delineando il quadro
-anche scientifico- e rappresentando compiutamente il contesto di riferimento.
Questo passaggio è fondamentale: ricostruire i fatti è indispensabile proprio
per accertare la verità processuale e chiarire le responsabilità penali.
Le
perizie e le tesi presentate durante la fase istruttoria non sono liberamente
assunte dal giudice ma, come la “sentenza Cozzini” della Cassazione penale nel
2010 ha precisato, patiscono alcune condizioni, legate a valutazioni di
attendibilità, sia oggettiva sia soggettiva. Si tratta, semplificando, di una
sorta di catalogo non tassativo ad uso dei giudici da leggersi come criteri
guida finalizzati a inquadrare (e circoscrivere) il peso specifico degli
scienziati nel processo, sovente richiamato e utilizzato in giurisprudenza.
In
estrema sintesi, le valutazioni scientifiche introdotte in dibattimento vanno
vagliate in base agli studi che le sorreggono, alla loro oggettività e
rigorosità, al grado di accettazione che tali teorie ricevono nella comunità
scientifica, agli interessi eventualmente presenti rispetto i committenti.
Ma
le affermazioni dei periti e consulenti di parte richiedono al giudice un
penetrante ruolo critico anche rispetto ai soggetti che presentano conclusioni
scientifiche. Così, nel caso del consulente Boffetta al processo Miteni tanto
quanto per il suo collega Colosio -come sia ben chiaro per ogni perito- per
tornare all’oggi, il giudice è chiamato a valutarne l’indipendenza e
l’integrità delle intenzioni.
Il
giudice è presidio di una delle tre funzioni dello Stato di diritto, il che
comporta non solo l’obbligo di far rispettare le leggi ma altresì quello di
garantire la giustizia mediante interpretazioni adeguate allo spirito delle
leggi: bisogna dare risposte a una collettività contaminata nel corpo, nelle
acque, nel terreno, nella mente e anche nella speranza, vista l’ipoteca sul
futuro posta dalla persistenza di questi “forever chemicals”.
Analizzando
inoltre la questione sotto l’ottica del rigore scientifico: che credibilità
professionale può riconoscersi a scienziati che negano sistematicamente
conclusioni condivise da gran parte della comunità scientifica per avvalorare
le tesi difensive dei committenti, ovvero le industrie chimiche nel caso di
specie?
Emerge
infine un ulteriore aspetto di riflessione: spesso i periti di parte sono anche
docenti universitari. E questa qualifica porta con sé un carico di
responsabilità non solo didattica ma anche simbolica. Essere docenti implica
anche costituire un modello di riferimento, non solamente didattico. È quindi
una questione etica che non va sottaciuta ma anche una questione accademica di
non poco conto.
Mario
Saugo è membro della Commissione ambiente e salute dell’Ordine dei medici di
Vicenza. Claudia Marcolungo è docente universitaria di Diritto dell’ambiente
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