Ecco come la Germania in crisi può suicidarsi (uccidendo l’Ue)
Lotte sociali e contro la guerra a Berlino |
Il modello basato su pochi investimenti e basso costo di energia e lavoro è morto: la nuova austerità farà solo danni,
DI
LUCIO BACCARO*
4
NOVEMBRE 2024
La Germania sta affrontando una
crisi che va oltre la tipica recessione economica. Siamo probabilmente a un
punto di svolta per il modello di crescita basato sulle esportazioni che ha
sostenuto l’economia tedesca dalla metà degli anni Novanta fino al periodo del
Covid. Le scelte che le élite tedesche prenderanno avranno conseguenze
importanti per l’intera Europa.
Le attuali difficoltà di
Volkswagen sono un segnale particolarmente visibile, ma non isolato, di
problemi più profondi che interessano tutti i settori chiave dell’economia tedesca.
I comparti energivori come quello chimico e siderurgico faticano a riprendersi
dallo choc provocato dall’invasione russa dell’Ucraina, che ha fatto aumentare
drasticamente i costi dell’energia.
Il settore automobilistico, responsabile da
solo del 16% della crescita tedesca tra il 1995 e il 2018, stenta a tenere il
passo con la concorrenza di produttori cinesi e coreani nel cruciale segmento
dei veicoli elettrici. A questo si aggiungono le crescenti tensioni
geopolitiche: le pressioni per ridurre la dipendenza economica dalla Cina –
attualmente uno dei principali mercati di esportazione per l’industria tedesca,
oltre che il più dinamico – non giovano certo a un’economia fortemente
orientata al commercio internazionale.
Per le élite tedesche si
delineano due possibili strategie.
La prima interpreta la crisi come
un problema di competitività dei costi, concentrandosi sulla riduzione dei
costi unitari del lavoro. In quest’ottica si inserisce la recente minaccia
di Volkswagen di chiudere tre stabilimenti in Germania. Anche se tali
chiusure sono improbabili, data la forte resistenza politica che
incontrerebbero, il messaggio di fondo è chiaro: i sindacati devono scordarsi
di recuperare il potere d’acquisto perso negli ultimi mesi a causa
dell’inflazione e prepararsi a fare concessioni nelle prossime
trattative.
La seconda strategia
ipotizzabile è molto diversa e consiste nel ribilanciare il modello di crescita,
stimolando la domanda interna e in particolare gli investimenti, e rafforzando
l’intervento dello Stato nell’economia.
La prima strategia non è nuova, essendo già stata adottata negli Anni 90 per
rispondere allo choc della riunificazione. In quel periodo, le aziende
manifatturiere tedesche richiesero ai sindacati deroghe agli accordi di settore
in cambio della tutela dell’occupazione, spesso minacciando di
delocalizzare la produzione nell’Europa centrale e orientale se i
lavoratori non si fossero adeguati. Questi accordi, noti come “patti per
l’occupazione e la competitività,” indebolirono il sistema di
contrattazione collettiva tedesco, riducendo il tasso di sindacalizzazione e la
copertura contrattuale, frenando la crescita salariale e rallentando, di
conseguenza, i consumi interni e le importazioni. Tuttavia, contribuirono ad
accrescere la competitività di costo delle aziende tedesche.
Un fattore importante fu la
fissazione dei cambi e l’introduzione dell’euro, che impedì ai partner europei
– che all’epoca rappresentavano i mercati più rilevanti perla Germania – di
aggiustare i cambi nominali, producendo così un tasso di cambio reale favorevole
per l’export tedesco. Il risultato fu che la Germania riuscì a uscire dalla
sua stagnazione con una crescita quasi esclusivamente trainata dalle esportazioni,
ma il prezzo pagato fu l’accumulo di squilibri nelle partite correnti: un accumularsi
di surplus per la Germania e di deficit ripetuti per altri Paesi periferici ,squilibri
che furono alla radice della crisi dell’Eurozona dei primi anni 2010.
Manifestazione neo nazista in Germania |
Sebbene molti attribuiscano alle riforme Hartz il merito di aver rilanciato l’economia tedesca migliorandone l’efficienza, il cambiamento era in realtà già iniziato all’interno del sistema di relazioni industriali. Tuttavia, nell’attuale contesto economico, è improbabile che la sola riduzione dei costi possa rilanciare la crescita trainata dalle esportazioni. Le sfide che oggi deve affrontare l’industria manifatturiera tedesca non riguardano tanto i costi, quanto piuttosto la competitività non legata al prezzo. La manifattura tedesca, un tempo perfettamente allineata alla domanda internazionale, appare ora fuori sincrono. È in ritardo su temi cruciali come la transizione alle energie rinnovabili e la digitalizzazione, inclusa l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi. Colmare questi divari richiede massicci investimenti. Si potrebbe anche sostenere che la mancanza di pressioni dal lato del lavoro abbia condotto a un preoccupante livello di compiacimento e a un impegno insufficiente verso l’innovazione.
In Germania esiste attualmente
un ampio consenso, sia politico che economico, sulla necessità di
incrementare gli investimenti pubblici, resi urgenti dall’insufficienza o dal
deterioramento delle infrastrutture, dai trasporti alle reti digitali.
Le imprese richiedono anche a gran voce il
supporto statale per affrontare la doppia transizione verde e digitale,
sebbene preferiscano ricevere sussidi pubblici piuttosto che l’adozione di
politiche industriali che ne limiterebbero la discrezionalità.
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150.000 manifestano contro l'estrema destra in Germania |
Nonostante il consenso sulla necessità di cambiare passo, una parte significativa dell’élite tedesca resta tuttavia esitante, preferendo l’approccio tradizionale della riduzione dei costi. Per esempio alcune voci critiche contestano le recenti espansioni della protezione sociale, come l’introduzione del salario minimo e del Bürgergeld (una forma di reddito minimo), sostenendo che queste misure riducano gli incentivi al lavoro. Secondo tali critici, la Germania avrebbe bisogno di una scossa simile all’Agenda 2010 e alle riforme Hartz per ridurre i costi e ripristinare la competitività.
Tuttavia, le prospettive di una
rinascita del modello export-led sono incerte. Occorre chiedersi quali
sarebbero i mercati di sbocco. La domanda europea non si è ancora pienamente
ripresa, frenata dalle misure di austerità imposte dopo la crisi dell’euro,
mentre l’accesso ai mercati asiatici, soprattutto quello cinese, è limitato,
non solo a causa del ritardo tecnologico della Germania nelle aree
digitali e verdi, divenute centrali per la domanda in quei mercati, ma
anche per via delle crescenti tensioni geopolitiche.
Queste divisioni emergono
chiaramente nel dibattito sul bilancio pubblico. Da un lato, alcuni leader,
specialmente tra socialdemocratici e verdi, chiedono di reintrodurre la “regola
aurea” per rilanciare gli investimenti escludendoli dal computo del deficit
pubblico. Dall’altro, esponenti liberali e cristiano-democratici spingono
per misure di austerità che riducano la spesa pubblica per i
consumi, liberando così risorse per nuovi investimenti senza aumentare il
bilancio complessivo.
La scelta della Germania tra austerità e investimenti pubblici avrà ripercussioni di
vasta portata per l’Europa intera. Per economie come l’Italia e la Francia,
che restano in condizioni fragili, una nuova stagione di austerità
guidata dalla Germania potrebbe rivelarsi destabilizzante, accentuando il
divario tra una zona euro stagnante e aree economiche più dinamiche come Cina e
Stati Uniti. Al contrario, un maggiore stimolo agli investimenti in
Germania e un allentamento dei vincoli di bilancio potrebbero avere effetti
positivi in tutta Europa. Un aumento della domanda interna tedesca
beneficerebbe le economie vicine, mentre programmi europei di investimento in
digitalizzazione, tecnologie verdi e infrastrutture – magari finanziati da
debito comune, come proposto dal rapporto Draghi – rafforzerebbero le
capacità di innovazione dell’Europa nel suo complesso.
In definitiva, la risposta della
Germania a questa crisi economica non definirà solo il suo futuro, ma anche la
traiettoria economica dell’intera Europa.
*Direttore del Max Planck
Institute di Colonia
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